Riqualificazione e Sviluppo Sostenibile

Quando si pensa alla sostenibilità a tutti corre subito il pensiero alle necessità energetiche. Qualcuno pensa anche alle restanti problematiche ambientali. E qui si fermano i più.
In realtà il concetto di sostenibilità e molto ampio e ridurlo a esigenze energetiche e ambientali è sempre riduttivo. L’energia è sicuramente un fattore importante. Gli edifici non devono consumare più di quanto necessario.
E stando alle conoscenze attuali questa necessità è pressoché ridotta a zero. In edilizia si parla di un fattore di riduzione 10: è possibile consumare 10 volte meno rispetto al parco edilizio attuale (Passando dai 200 kWh/mqa del parco edilizio nazionale a meno di 20 kWh/mqa necessari per un’abitazione progettata con opportuni criteri), in condizioni di servizio pari, se non migliori.
Tutto con i materiali e le tecnologie anche attualmente disponibili, solo attraverso migliore attenzione e conoscenza delle questioni termiche. Gran parte della definizione di queste conoscenze proviene dal centro Europa ed è calibrato su esigenze termiche tipicamente invernali. Alla latitudine del centro-sud Italia le esigenze di isolamento esitivo sono perlomeno altrettanto importanti di quelle invernali.
Quello che stiamo vivendo è quindi una fase di passaggio nella quale metodi mitteleuropei vanno appresi e declinati con esigenze mediterranee. Mi spiego: quando il problema è di mantenere il caldo all’interno di un ambiente, tutto ciò di cui abbiamo bisogno è di isolare rispetto all’esterno.

Quando il problema è invece di mantenere il fresco all’interno degli ambienti, allora gli apporti di calore dati dalle fonti interne (persone, illuminazione, elettrodomestici, impianti) e provenienti dall’esterno attraverso le vetrate (sole) incidono in maniera preponderante. La coibentazione in questo caso non ci aiuta: in quanto impedisce al calore di fuoriuscire dall’involucro.
La soluzione ben conosciuta e sperimentata nell’edilizia storica di tutti i paesi caldi e poco umidi è di introdurre la massa. La massa consente di stabilizzare la temperatura interna smorzando i picchi dati dalla temporanea presenza di persone e altri carichi termici, e avvicinare i valori a quelli medi dell’aria esterna. Se valutiamo i valori di temperatura dell’aria medi mensili ci accorgeremo che tanto più riusciamo ad avvicinarci ad essi, tanto maggiore sarà il comfort abitativo e ridotto o annullato sarà il fabbisogno di climatizzazione meccanica.

Naturalmente il problema ambientale è molto più ampio e legato a molti altri fattori, quali 1 Vicepresidente Nazionale INBAR – Istituto Nazionale di Bioarchitettura 2 Passando dai 200 kWh/mqa del parco edilizio nazionale a meno di 20 kWh/mqa necessari per un’abitazione progettata con opportuni criteri. Ad esempio l’inquinamento e le polveri sottili, la permeabilità dei suoli, quantità e qualità di rifiuti e reflui, risorse idriche ecc.
Ma ciò che mi preme sottolineare è il messaggio che non possiamo ridurre le soluzioni al preblema della sostenibilità a fatti tecnici.
Occorre invece un cambio radicale di mentalità per capire che la domanda che la nostra società si deve porre non è quanto risparmiamo con la coibentazione o con il fotovoltaico, ma cosa facciamo di quel risparmio. Perché se ogni volta che otteniamo un risparmio per unità di prodotto continuiamo ad incrementare i consumi complessivi, alla continua ricerca di consumi, non traguardiamo l’obiettivo della sostenibilità. Così la sostenibilità non è qualcosa di esclusivamente tecnologico, ma qualcosa di strettamente dipendente dall’atteggiamento e dalla visione dell’uomo.
Se i bisogni dell’uomo non sono appagati, se non è soddisfatto quella ricerca di qualità che ci consente una vita soddisfatta con i beni materiali ed immateriali che ci sono dati, sempre continuerà quella ricerca di soddisfazione che la nostra società consumistica vuole ingenerare e sempre promette di appagare.
Così l’unico modo perché un territorio appaghi il bisogno di qualità dei suoi abitanti è che sia in armonia con quel luogo e in continuità con la sua storia, rispecchiandosi in usi e costumi e pensieri di quella comunità. Il territorio è uno e continuo. Questo non vuole dire che non si po ssano e non vadano ad un livello culturale e storiografico identificate le stratificazioni temporali di una città: lungi da questo.
Da sempre il tessuto di un territorio si è mosso, dilatandosi, spingendosi, alzandosi e anche contraendosi nelle varie direzioni, con progressive stratigrafie sempre abbastanza ben identificabili: la città greca, la città romana, quella medioevale, rinascimentale barocca, ottocentesca e via dicendo. Ma questa identificazione delle stratigrafie è qualcosa di per sé molto diverso dalla parametrazione di zone di salvaguardia dell’urbanistica contemporanea, dove dentro sta la tutela, fuori sta la libertà. Questa perimetrazione è una forzatura del tutto astratta che deriva dalla nostra visione geometrico cartesiana del mondo, per cui per analizzare scomponiamo progressivamente l’oggetto di analisi in sottoelementi via via più definiti, perdendo progressivamente la visione dell’insieme e di come esso funzioni. Questa impostazione analitica ci ha consentito enormi progressi nei secoli, ci ha consentito di sorpassare società millenarie con impostazione opposta e molto più evolute della nostra, come quella cinese, ha consentito il progresso scientifico, appunto soprattutto in quelle materie dove da vantaggio la scomposiziosassne del tutto in sottounità sempre più analiticamente definibili. Ma la progressiva cieca fiducia nel sistema cartesiano e la sua applicazione in tutti gli ambiti di studio, proprio questa forzata necessità che sempre più sentiamo, di applicare canoni analitici alla valutazione di tutte le questioni della nostra vita, la convinzione che solo la dimostrazione analitica e quindi scientifica consenta la dimostrazione della verità, la stessa parola “scientifico”, per i più essa stessa sinonimo di verità e di dimostrazione inconfutabile se non attraverso altre ed ulteriori prove scientifiche, ebbene questa visione del mondo, se bene si adatta alla meccanica e all’ingegneria, crea danni, forzature e storture quando diviene l’unico canone nelle materie umanistiche quali la psicologia, la medicina, l’architettura e l’urbanistica.
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E’ evidente che i progressi della chirurgia –dati proprio da questa particolare visione del mondo e fiducia nella scomposizione analitico-scientifica- sono stati formidabili. E’ altrettanto evidente il limite della medicina quando il problema è invece psicosomatico, e che seppure evidentemente sia la nostra psiche a guidare tutte le nostre scelte, pochissimo sappiamo realmente riguardo a come interagire con essa ed eventualmente guarirla. Questo proprio a causa del discredito gettato su tutte quelle materie che non possono essere assolte unicamente con il metodo cartesiano-scientifico. Lo stesso nell’architettura e nell’urbanistica, considerate a partire dall’800, secolo dell’ingegneria, sorelle minori e logorate in un continuo sforzo di imitazione e di ricerca di quei canoni scientifici a cui potersi affidare ciecamente. Di qui a partire dai primi decenni del ‘900 il Bauhaus della casa-macchina abitativa, il modernismo del sillogismo forma-funzione e per finire l’architettura contemporanea con il suo lessico-energetico.
Frotte di architetti si sono di volta in volta dedicati con tutte le loro energie all’una o all’altra corrente di pensiero, per poi percepire intimamente l’incongruenza di quello che facevano e sfociare in contro-movimenti caratterizzati dall’esplosione della completa gratuità, dell’avulso dal contesto, dell’autoreferenzialismo stile Gehry. Evidentemente l’architettura non è materia esclusivamente ed unicamente tecnica: l’architettura ha a che fare con la comunicazione e deve interagire con le persone, e la nostra percezione del mondo è organica -non analitica- quindi essenzialmente sul piano organico funziona la comunicazione dell’architettura. Allora l’intervento organico è quello omeopatico, che risolve il problema non guardando solo alla sua manifestazione, ma ricercandone l’origine intima. E’ quello che con poco – nulla a detta dei meno attenti- ottiene un cambio di rotta agendo sui gangli invisibili e quotidiani di un organismo.

Se l’obiettivo di tutti i nostri sforzi è la macchina abitativa, la casa univoca e perfetta, il nostro sforzo sarà evidentemente inutile e disatteso. A partire dal dopoguerra abbiamo perso i riferimenti geografici e storici con il contesto, anche grazie alla tecnologia a disposizione, sempre più industrializzata e versatile. I mezzi a disposizione sono cresciti e i parametri con i quali applicarli sono venuti meno. Possiamo realizzare strutture con un grado di libertà molto maggiore di una volta, ma il risultato è peggiore. Il motivo va ricercato proprio nella perdita di riferimenti. Se analizziamo un centro storico, la bellezza degli edifici non sta nella soluzione ideata e messa in bella mostra da ogni singolo progettista, ma nell’armonia dell’insieme degli edifici. E’ proprio questo senso di dialogo che è la forza di un tessuto urbano e che è andato perso. Siamo capaci di fare una bella macchina, ma non siamo più capaci di fare una piazza, e i parcheggi sono la massima espressione di degraio del nostro territorio. Siamo capaci di disegnare una bella tazza, ma siamo in difficoltà a imbandire una bella tavola. Siamo tuttalpiù in grado di arredare una stanza, ma in difficoltà rispetto al salotto di una città.
Quello che voglio dire è che il centro storico di Nocera è tale perché sta a Nocera, e da un territorio circostante, geograficamente quanto storicamente inteso assorbe i suoi caratteri. Pensare alla qualificazione del centro storico distinta e altra rispetto alla valorizzazione del territorio circostante non è un’impresa che di per sé possa dare buoni frutti, e perciò probabilmente neanche sostenibile nel lungo periodo. Voglio dire che la qualità di un pezzo di territorio non può essere troppo diversa da ciò che vi sta intorno e che le differenze tenderanno a compensarsi in positivo e in negativo per un naturale effetto osmotico.

Valorizzare un centro storico significa quindi pensare alla valorizzazione di un intero territorio, pensato in maniera sinergica a livello non solo urbanistico ed architettonico, ma di sistema ambientale, sociale, culturale ed economico. Valorizzare va inteso non tanto e solo come tutela, ma come sistema di valorizzazione e incentivazione. La mera conservazione di uno status quo non è a lungo sostenibile se il sistema non consente di seguire i movimenti e le istanze di una società, finendo alla lunga per scollarsene e diventare, come già a volte accaduto in alcuni centri storici: ghetto abbandonato in mano agli strati più poveri della società. Questo ultimo passo significa che lo scollamento è tale, che la tutela e i vincoli -urbanistici, igienici- sono tali da rendere non desiderabile ciò che invece per molti versi potrebbe esprimere canoni di qualità. La questione del centro storico non riguarda il centro inteso come zona urbanistica A di tutela. Non esiste un Io frequentatore di centri storici, che assorbe il bello e gode di un paesaggio urbano di qualità, gode di una convivialità, degli incontri occasionali, della camminata, ed un Io altro, che di tutto questo non sa che farsene e quando attraversa i restanti quartieri spegne i sensi e non interagisce con il territorio. No. Il territorio è uno e continuo.

Giovanni Sasso – vicepresidente INBAR Istituto Nazionale Bioarchitettura
Atti del Convegno Centri Storici. Riqualificazione e sviluppo sostenibile (Nocera Inferiore, 15 aprile 2011)



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